Da mamma adottiva mi chiedo spesso come sarà l’adolescenza e l’eta adulta di mio figlio, soprattutto in relazione alla sua storia. Per questo quando posso cerco di confrontarmi con figli adottivi adulti per cercare di mettermi in un altro punto di vista. Con questo presupposto sabato 11 marzo ho partecipato al seminario Arte e Adozione organizzato a Milano dal centro Ado.T.
Gli artisti, figli adottivi adulti, presenti al seminario
La giornata ha visto protagonisti tre artisti, figli adottivi adulti, che hanno raccontato come l’arte sia stata un veicolo di comunicazione e di espressione del loro vissuto emotivo legato alla loro storia di adozione: Jung, fumettista e regista di origini coreane adottato all’età di cinque anni da una famiglia belga, No&Ni, anche lei di origini coreane, adottata quando aveva otto mesi da una famiglia belga e che realizza sculture, gioielli, decorazioni in argilla polimerica e Francesco Longo Redyet in arte RED, giovane artista di origini etiopi adottato all’età di sette anni da una famiglia italiana.
La rielaborazione del vissuto abbandonico
Tre artisti che attraverso la loro espressione artistica hanno dato voce alla loro esperienza di figli adottivi, l’arte è per tutti e tre uno strumento di ricerca della propria identità, di accettazione della propria storia e di rielaborazione del vissuto abbandonico. Ognuno di loro mi ha trasmesso delle emozioni, mi ha dato spunti di riflessione che, una volta a casa, ho rielaborato e a cui ho ripensato più volte cercando di farne tesoro prezioso.
Il film di Jung “Couleur de peau: Miel”
La mattinata si è aperta con la proiezione del film di Jung Couleur de peau: miel, un lungometraggio che percorre tra animazione e film la storia della sua adozione da parte di una famiglia belga che aveva già quattro figli biologici e che dopo di lui adotterà ancora una bimba coreana. Tanti i temi che emergono nel lungometraggio come la ricerca della propria identità, l’accettazione di sé e l’amore materno. Quest’ultimo in particolare mi ha toccato molto. Nel lungometraggio Jung sogna ed immagina diverse volte la mamma biologica che viene ritratta sempre con il volto in penombra coperto da un ombrellino. Una madre biologica sognata, a tratti idealizzata, che si allontana da Jung voltandogli le spalle. Una mamma muta, senza parole, dai gesti candidi e lenti che si contrappone alla mamma adottiva di Jung, poco affettiva, spesso arrabbiata con il figlio e che gli riserva anche parole taglienti ,”sei una mela marcia” è ciò che dice la mamma a Jung dopo l’ennesimo guaio combinato dal figlio. Una madre che non ha saputo comunicare con il figlio, non ha saputo trasmettergli la sicurezza e la certezza di essere stato desiderato e di essere amato.
Mentre commossa osservavo il film ho pensato a quanto sia fondamentale per tutti i genitori, ma ancor di più per noi genitori adottivi, costruire un dialogo con i nostri figli che gli faccia avere la consapevolezza di non essere stati un ripiego, ma di essere stati profondamente desiderati ed amati per ciò che sono con tutta la loro storia.
“Non esitate a dire ai vostri figli che li amate”, sono queste le parole di Jung al termine della proiezione, nei suoi occhi leggo il rammarico di non esserselo sentito dire abbastanza dalla sua mamma adottiva. E mi tornano in mente tutte le volte in cui guardo mio figlio negli occhi e gli dico che lo amo, lo faccio tutte le mattine quando lo accompagno all’asilo, quando mi capita di lasciarlo dai nonni, quando gli do’ la buonanotte, quando giochiamo e ci divertiamo. Forse esagero ma voglio che sappia che lo amo, che è ciò che ho desiderato di più nella mia vita.
Immaginare la mamma biologica
Jung spiega poi che ha avuto bisogno di immaginare la sua mamma biologica, di rifugiarsi in quel sogno perché il rapporto con la sua mamma adottiva non era idilliaco. Il disegno è per Jung un modo per evadere e trovare rifugio, uno strumento per ricreare una realtà immaginata migliore di quella che vive, un modo per ricercare la sua identità: “i disegni erano una porta aperta sulla mie origini, non mentivano“.
Il lungometraggio si conclude con un momento di dialogo tra Jung e la sua mamma adottiva, forse l’unico momento di tenerezza tra i due in tutto il lungometraggio: la mamma svela a Jung di aver perso un figlio alla nascita e di aver inconsciamente dato al figlio adottivo quel posto. Una sorpresa anche per Jung che non pensava di avere un posto nel cuore della mamma. Ho colto in questa scena e in quelle parole della madre quasi sussurrate una nuova consapevolezza, quella di sentirsi finalmente madre di un figlio venuto da lontano e di aver accolto la sofferenza del figlio, quasi come se solo in quel preciso istante si fosse mostrata con tutta la sua prepotenza. Jung da parte sua prende consapevolezza inoltre che il rapporto piuttosto rigido che la mamma aveva sempre avuto con lui in realtà era lo stesso che aveva avuto anche con i suoi figli biologici.
Un lungometraggio che in poco più di un’ora condensa tanti temi, alcuni di cui si parla poco come il suicidio, tra immagini e disegni tocca nel profondo, stimola pensieri, considerazioni, emozioni.
Un modo per continuare ad informarmi, a riflettere, a pormi domande, a cercare risposte in questo variopinto mondo dell’adozione.